Insidemymind-outsideyourmind
Isole della mente nel continente del vissuto
di Viana Conti
È a partire da un luogo, deprivato della sua connotazione di ospedale psichiatrico, che prende forma, come un’onda di memoria e di immaginazione, la mostra significativamente intitolata Inside my mind-Outside your mind/Dentro la mia testa-Fuori dalla tua testa. Sede di partenza, lo spazio viene assunto nel suo attuale stato di abbandono e di conseguente degrado, come non-luogo di sogni e incubi, di attese disattese, ma anche di ritrovamenti di interstizi, reali o virtuali, di identità, di proiezioni emozionali di soggetti e oggetti, di gesti intensi e ambienti densi di affezione. Vi si confrontano, nella sua destinazione itinerante, due tipologie: quella segreta dell’interiorità e quella esterna dell’alterità. Tende così a formalizzarsi, attraverso la messa in mostra di opere di carattere multimediale, una condizione di intelligenza relazionale di ordine interpersonale (Grillo, Monaco, Mayer), intrapersonale (Vitarelli), ma anche linguistica (Levo Rosenberg, Cassaglia), corporeo-cinestetica e spaziale (Scarfò), in possibile sintonia con la teoria dell’intelligenza multipla sostenuta dallo psicologo americano Howard Gardner. Gli artisti sono sette, uniti empaticamente, senza alcuna discriminante culturale, professionale, sociologica, terapeutica, artistica, e al tempo stesso liberi di esprimere all’altro, e iscrivere nella propria isola creativa, il portato di un’inalienabile soggettività. Una libertà di espressione, la loro, che risponde alle pulsioni liberatorie di desideri forse inibiti, talora addirittura repressi, ma anche di confessioni infantilmente sussurrate nella discrezione silenziosa di una struttura vuota, sul bordo dell’oblìo. È negli intendimenti della mostra che la lettura del suo complesso e delle sue singolarità avvenga alla luce di una condizione di opportunità senza barriere. Dalla comune radice verbale motion, scaturiscono le motivazioni, le emozioni e i liberi movimenti nello spazio delle opere e degli artisti. La mostra viene documentata da un video realizzato da Scarfò, che si muove a proprio agio, anche per i suoi self clip, sia all’interno dell’ex Istituto manicomiale di Cogoleto sia in quello - la parte in disuso - di Quarto, sede indimenticabile dell'Istituto per le Materie e le Forme Inconsapevoli e della sezione Museattivo Claudio Costa, dal nome dell’artista precocemente scomparso nel 1995, che promuovono questa mostra, e degli ateliers di arte-terapia. Ambientate ariosamente in questa struttura archeologica, ora ricovero prediletto di gatti, topi, piccioni, loro naturali ospiti, tra vetri rotti, pareti segnate da battaglie inenarrabili, finestre pesantemente sbarrate, pavimenti ingombri di cataste di fascine, dove un mattone sbrecciato si improvvisa, nel gesto surreale di Gianfranco Vendemiati, vaso per la vita breve di un fiore, le opere, in contrappunto con il greve vissuto dello spazio che le circonda, si scaricano di dramma e si caricano di poetica leggerezza e fresca spontaneità. Di Ice Dog, i cui esponenti sono Bruno Cassaglia e Luisa Bugna, termine algido che ribalta quello commestibile di Hot Dog, è la scritta omonima in granoturco che, cosparsa di alcool e data alle fiamme, si trasforma, con un gesto performativo, in un pasto caldo per i piccioni che vi abitano; in altra sede l’opera viene appropriatamente sostituita dalla forma primaria di una croce “bendata”. Gli esponenti del gruppo operano anche sul terreno della verbo-visività, della tautologia tra gestualità e scrittura, tra i nomi e le cose. Di Rossella Grillo sono i micro-maglioncini lavorati a maglia, nei diversi colori dell’arcobaleno, appesi a un contenitore di cartone a voler rappresentare il dono di contatti tanto ravvicinati da diventare possibili abbracci, termine questo che intitola i lavori. Di Abbracci ce ne sono tuttavia di vario tipo, quelli totali e quelli mutilati, a giudicare dalle ricorrenti mancanze di uno o l’altro braccio nelle piccole confezioni di lana colorata. Nella sua intenzione di esprimere calore, l’opera evidenzia slanci e resistenze al momento compartecipativo. Margherita Levo Rosenberg è emblematicamente presente con l’installazione “Muri che parlano”, dodici coni, suoi topoi concettual-oggettuali, realizzati con lastre radiologiche del colore, utilizzato negli ospedali, grigio-verde lambrino, che lasciano intravvedere all’interno avvolgimenti di stampe su fogli di acetato. Queste immaginarie sacche di realtà dolenti, occultate dalle barriere reali e metaforiche dei muri, si aprono a spirale lasciando trapelare immagini intensamente connesse a storie di vite vissute nella reclusione e tuttavia, alla luce dell’interesse di qualche spirito illuminato, esteticamente espresse ed apprezzate dal mondo esterno, come quelle di Davide Mansueto Raggio, che l’artista Claudio Costa aveva descritto come uomo … di legno antico, lavorato dal gelo, dalla memoria e da un tempo che si perde lontano, di Carlo Zinelli, i cui altamente simbolici lavori cromatici, segnici, scritturali, sonori, furono sottoposti da Vittorino Andreoli a Jean Dubuffet, di Aloïse che si rappresenta fiera regina di un mondo piattamente raggelato e decorato come una carta da gioco, di Adolf Wölfli i cui deliri figurativi, numerici e musicali divennero oggetto di una fondamentale monografia di Walter Morgenthaler, letta da Rilke e da Andreas-Salomé. Il linguaggio estetico di Levo Rosenberg, di possibile ascendenza post-pop/concettuale, opera sovente su dispositivi di traslazione, traduzione ironica, transfert tra significato e significante. Di Mara Mayer è la foto di un frammento di un vistoso manifesto del circo che annuncia alla popolazione la sua visita: giusto Nella vostra città. In un fantomatico spazio di detriti e relitti ecco irrompere, da una breccia del muro, una fierissima tigre che viene a visitare il luogo, risvegliando, con la felinità della sua presenza, onde di paura sopita o soffocata. Evidente è la frizione che si crea tra un luogo, che è stato abitato da camici bianchi e adibito alla terapia psichica, e il linguaggio aggressivo dei messaggi pubblicitari metropolitani. La danza aerea di figure specchianti, ritagliate da Dorina Monaco per la mostra, ricostruisce l’identità di un soggetto emblematico come il gatto che, animale d’affezione, randagio, da salotto, ma sempre tendenzialmente solo e libero, mantiene alta la sua dignità, la sua innata eleganza di postura, il magnetico fascino del suo sguardo al fosforo. L’oscillare nello spazio di questi felini specchianti, da cui viene ritagliata e altrove dislocata la coda, diventa, come si può rilevare nel video di documentazione, improvviso rispecchiamento di un volto in transito. Plasticamente disinibita, sospesa tra la realtà e l’utopia, tra la terra e il vuoto, il volo e la stasi, è La danza delle libertà mancate che Chiara Scarfò improvvisa, nei suoi self-video-clip, dialogando con la sua ombra, il suo doppio allo specchio, oggetti d’arredo, relitti trash, improvvisi spiragli di luce. Videoartista e performer Scarfò, slittando da pose fetali a pose fatali, da equilibrismi spericolati a salde figure ginniche, costruisce e decostruisce strutture labirintiche, flash di giochi infantili, ritrovandosi o smarrendosi, di soglia in soglia, in spazi vagamente allucinatori, in tunnel attraversati da sogni e incubi. È ipotizzabile che la forte tensione che si percepisce nei suoi autoscatti e nelle sue videoazioni derivi dal contrasto tra il suo giovane corpo e il degrado dello spazio ambientale in cui si muove. Le opere di Giovanna Vitarelli sono l’espressione di un vero e proprio culto praticato verso le pietre dure e preziose, in questo caso con riferimento a quella varietà di berillo di colore verde che è lo smeraldo, la cui bellezza, purezza e trasparenza riconduce all’archeomistero del Santo Graal, il calice in cui Gesù sembra aver bevuto nell’Ultima Cena e in cui Giuseppe d’Arimatea, segreto discepolo di Cristo, si pensa ne abbia raccolto il sangue dalla Croce, come viene riportato nella scritta sulle pareti verdi dello spazio espositivo, insignite, al centro, di una collana e ai piedi di un cristallo di radice di smeraldo. Spesso nel lavoro di Vitarelli si instaura un dialogo di ordine metaforico e simbolico, tra la materia originata dalla natura e quella derivata dal lavoro industriale dell’uomo. In conclusione si può rilevare come tutte le opere realizzate dagli artisti selezionati, raccogliendo le suggestioni e le presenze reali e metaforiche dello spazio espositivo, entrino in empatica sintonia con le istanze espressive della loro mente. Interessante è osservare come talora le soluzioni estetiche bidimensionali esprimano, a differenza di quelle tridimensionali, un rapporto conflittuale o comunque difficile con la realtà. In questo esplicito contesto di pari opportunità creative ed espositive, si può anche rilevare come alcune opere nascano da un’imprescindibile urgenza interiore, che trova nella realizzazione e rappresentazione l’alleggerimento di un malessere profondo, configurandosi come reazione interna a una provocazione esterna e altre nascano da una naturale evoluzione linguistica in seno a una ricerca in atto, nel cui ambito la presenza di tensione è ascrivibile alla difficoltà consapevole di dare forma concreta all’immaterialità di un’idea, di iscrivere in un’opera finita una domanda di infinito.
di Viana Conti
È a partire da un luogo, deprivato della sua connotazione di ospedale psichiatrico, che prende forma, come un’onda di memoria e di immaginazione, la mostra significativamente intitolata Inside my mind-Outside your mind/Dentro la mia testa-Fuori dalla tua testa. Sede di partenza, lo spazio viene assunto nel suo attuale stato di abbandono e di conseguente degrado, come non-luogo di sogni e incubi, di attese disattese, ma anche di ritrovamenti di interstizi, reali o virtuali, di identità, di proiezioni emozionali di soggetti e oggetti, di gesti intensi e ambienti densi di affezione. Vi si confrontano, nella sua destinazione itinerante, due tipologie: quella segreta dell’interiorità e quella esterna dell’alterità. Tende così a formalizzarsi, attraverso la messa in mostra di opere di carattere multimediale, una condizione di intelligenza relazionale di ordine interpersonale (Grillo, Monaco, Mayer), intrapersonale (Vitarelli), ma anche linguistica (Levo Rosenberg, Cassaglia), corporeo-cinestetica e spaziale (Scarfò), in possibile sintonia con la teoria dell’intelligenza multipla sostenuta dallo psicologo americano Howard Gardner. Gli artisti sono sette, uniti empaticamente, senza alcuna discriminante culturale, professionale, sociologica, terapeutica, artistica, e al tempo stesso liberi di esprimere all’altro, e iscrivere nella propria isola creativa, il portato di un’inalienabile soggettività. Una libertà di espressione, la loro, che risponde alle pulsioni liberatorie di desideri forse inibiti, talora addirittura repressi, ma anche di confessioni infantilmente sussurrate nella discrezione silenziosa di una struttura vuota, sul bordo dell’oblìo. È negli intendimenti della mostra che la lettura del suo complesso e delle sue singolarità avvenga alla luce di una condizione di opportunità senza barriere. Dalla comune radice verbale motion, scaturiscono le motivazioni, le emozioni e i liberi movimenti nello spazio delle opere e degli artisti. La mostra viene documentata da un video realizzato da Scarfò, che si muove a proprio agio, anche per i suoi self clip, sia all’interno dell’ex Istituto manicomiale di Cogoleto sia in quello - la parte in disuso - di Quarto, sede indimenticabile dell'Istituto per le Materie e le Forme Inconsapevoli e della sezione Museattivo Claudio Costa, dal nome dell’artista precocemente scomparso nel 1995, che promuovono questa mostra, e degli ateliers di arte-terapia. Ambientate ariosamente in questa struttura archeologica, ora ricovero prediletto di gatti, topi, piccioni, loro naturali ospiti, tra vetri rotti, pareti segnate da battaglie inenarrabili, finestre pesantemente sbarrate, pavimenti ingombri di cataste di fascine, dove un mattone sbrecciato si improvvisa, nel gesto surreale di Gianfranco Vendemiati, vaso per la vita breve di un fiore, le opere, in contrappunto con il greve vissuto dello spazio che le circonda, si scaricano di dramma e si caricano di poetica leggerezza e fresca spontaneità. Di Ice Dog, i cui esponenti sono Bruno Cassaglia e Luisa Bugna, termine algido che ribalta quello commestibile di Hot Dog, è la scritta omonima in granoturco che, cosparsa di alcool e data alle fiamme, si trasforma, con un gesto performativo, in un pasto caldo per i piccioni che vi abitano; in altra sede l’opera viene appropriatamente sostituita dalla forma primaria di una croce “bendata”. Gli esponenti del gruppo operano anche sul terreno della verbo-visività, della tautologia tra gestualità e scrittura, tra i nomi e le cose. Di Rossella Grillo sono i micro-maglioncini lavorati a maglia, nei diversi colori dell’arcobaleno, appesi a un contenitore di cartone a voler rappresentare il dono di contatti tanto ravvicinati da diventare possibili abbracci, termine questo che intitola i lavori. Di Abbracci ce ne sono tuttavia di vario tipo, quelli totali e quelli mutilati, a giudicare dalle ricorrenti mancanze di uno o l’altro braccio nelle piccole confezioni di lana colorata. Nella sua intenzione di esprimere calore, l’opera evidenzia slanci e resistenze al momento compartecipativo. Margherita Levo Rosenberg è emblematicamente presente con l’installazione “Muri che parlano”, dodici coni, suoi topoi concettual-oggettuali, realizzati con lastre radiologiche del colore, utilizzato negli ospedali, grigio-verde lambrino, che lasciano intravvedere all’interno avvolgimenti di stampe su fogli di acetato. Queste immaginarie sacche di realtà dolenti, occultate dalle barriere reali e metaforiche dei muri, si aprono a spirale lasciando trapelare immagini intensamente connesse a storie di vite vissute nella reclusione e tuttavia, alla luce dell’interesse di qualche spirito illuminato, esteticamente espresse ed apprezzate dal mondo esterno, come quelle di Davide Mansueto Raggio, che l’artista Claudio Costa aveva descritto come uomo … di legno antico, lavorato dal gelo, dalla memoria e da un tempo che si perde lontano, di Carlo Zinelli, i cui altamente simbolici lavori cromatici, segnici, scritturali, sonori, furono sottoposti da Vittorino Andreoli a Jean Dubuffet, di Aloïse che si rappresenta fiera regina di un mondo piattamente raggelato e decorato come una carta da gioco, di Adolf Wölfli i cui deliri figurativi, numerici e musicali divennero oggetto di una fondamentale monografia di Walter Morgenthaler, letta da Rilke e da Andreas-Salomé. Il linguaggio estetico di Levo Rosenberg, di possibile ascendenza post-pop/concettuale, opera sovente su dispositivi di traslazione, traduzione ironica, transfert tra significato e significante. Di Mara Mayer è la foto di un frammento di un vistoso manifesto del circo che annuncia alla popolazione la sua visita: giusto Nella vostra città. In un fantomatico spazio di detriti e relitti ecco irrompere, da una breccia del muro, una fierissima tigre che viene a visitare il luogo, risvegliando, con la felinità della sua presenza, onde di paura sopita o soffocata. Evidente è la frizione che si crea tra un luogo, che è stato abitato da camici bianchi e adibito alla terapia psichica, e il linguaggio aggressivo dei messaggi pubblicitari metropolitani. La danza aerea di figure specchianti, ritagliate da Dorina Monaco per la mostra, ricostruisce l’identità di un soggetto emblematico come il gatto che, animale d’affezione, randagio, da salotto, ma sempre tendenzialmente solo e libero, mantiene alta la sua dignità, la sua innata eleganza di postura, il magnetico fascino del suo sguardo al fosforo. L’oscillare nello spazio di questi felini specchianti, da cui viene ritagliata e altrove dislocata la coda, diventa, come si può rilevare nel video di documentazione, improvviso rispecchiamento di un volto in transito. Plasticamente disinibita, sospesa tra la realtà e l’utopia, tra la terra e il vuoto, il volo e la stasi, è La danza delle libertà mancate che Chiara Scarfò improvvisa, nei suoi self-video-clip, dialogando con la sua ombra, il suo doppio allo specchio, oggetti d’arredo, relitti trash, improvvisi spiragli di luce. Videoartista e performer Scarfò, slittando da pose fetali a pose fatali, da equilibrismi spericolati a salde figure ginniche, costruisce e decostruisce strutture labirintiche, flash di giochi infantili, ritrovandosi o smarrendosi, di soglia in soglia, in spazi vagamente allucinatori, in tunnel attraversati da sogni e incubi. È ipotizzabile che la forte tensione che si percepisce nei suoi autoscatti e nelle sue videoazioni derivi dal contrasto tra il suo giovane corpo e il degrado dello spazio ambientale in cui si muove. Le opere di Giovanna Vitarelli sono l’espressione di un vero e proprio culto praticato verso le pietre dure e preziose, in questo caso con riferimento a quella varietà di berillo di colore verde che è lo smeraldo, la cui bellezza, purezza e trasparenza riconduce all’archeomistero del Santo Graal, il calice in cui Gesù sembra aver bevuto nell’Ultima Cena e in cui Giuseppe d’Arimatea, segreto discepolo di Cristo, si pensa ne abbia raccolto il sangue dalla Croce, come viene riportato nella scritta sulle pareti verdi dello spazio espositivo, insignite, al centro, di una collana e ai piedi di un cristallo di radice di smeraldo. Spesso nel lavoro di Vitarelli si instaura un dialogo di ordine metaforico e simbolico, tra la materia originata dalla natura e quella derivata dal lavoro industriale dell’uomo. In conclusione si può rilevare come tutte le opere realizzate dagli artisti selezionati, raccogliendo le suggestioni e le presenze reali e metaforiche dello spazio espositivo, entrino in empatica sintonia con le istanze espressive della loro mente. Interessante è osservare come talora le soluzioni estetiche bidimensionali esprimano, a differenza di quelle tridimensionali, un rapporto conflittuale o comunque difficile con la realtà. In questo esplicito contesto di pari opportunità creative ed espositive, si può anche rilevare come alcune opere nascano da un’imprescindibile urgenza interiore, che trova nella realizzazione e rappresentazione l’alleggerimento di un malessere profondo, configurandosi come reazione interna a una provocazione esterna e altre nascano da una naturale evoluzione linguistica in seno a una ricerca in atto, nel cui ambito la presenza di tensione è ascrivibile alla difficoltà consapevole di dare forma concreta all’immaterialità di un’idea, di iscrivere in un’opera finita una domanda di infinito.