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Tra dentro e fuori
Chiara Scarfò; tra dentro e fuori
Margherita Levo Rosenberg
2003

Chiara Scarfò nasce a Genova nel 1977, vi frequenta il liceo artistico Paul Klee nei primi anni novanta ed immediatamente si affaccia al mondo dell’arte.
Tra il 1997 e il 1999 vive a Roma dove frequenta l’atelier di Mimmo Nobile - pittore di scuola romana presso il quale conosce numerosi artisti tra cui Ennio Calabria - e completa la sua formazione facendo una pittura di forte impatto emozionale, sia negli accostamenti cromatici, sia nella scarnificazione dei segni che danno origine a diverse figure femminili nelle quali, tuttavia, si potrebbe continuare a riconoscerla.
Di fatto, per sua stessa ammissione, dipinge e ridipinge velocissimi autoritratti.
Ritrarsi nel corpo è la sua ossessione.
Dal 2002, volontaria dell’I.M.F.I., associazione culturale sui temi della relazione tra arte e disagio, frequenta l’atelier di arte-terapia del Centro Basaglia.
Viene dagli ambienti della danza contemporanea, che ha praticato intensivamente per tredici anni, dall’infanzia fino ai vent’anni, quando decide che preferisce esprimersi attraverso il mezzo visivo, “anche perché” dice, “la danza aveva un limite…non riuscivo a volare…”.
Così Scarfò comincia ad autoritrarsi in posizioni ed espressioni diverse, talvolta improbabili, nel tentativo di far parlare questo suo “corpo che non serve a niente”.
Lo fa con un segno veloce, una pittura acrilica sgrammaticata, quasi grafica, dai toni puri, violenti e sporchi, stesa su di un fragile supporto cartaceo che talvolta cede macerandosi e stropicciandosi più di quanto non lo sia già in partenza; se può, infatti, riutilizza carta di recupero, che porta i segni di un precedente impiego.
Il supporto cartaceo, nel suo lavoro, diventa un messaggero simbolico, metafora del confine tra il dentro e il fuori, tra il suo corpo e il mondo, tra la sua interiorità e la sua corporeità; potrebbe incarnare la rappresentazione di un Io-pelle dove coincidono il confinare e lo sconfinare, dove ha luogo l’osmosi dell’essere…in relazione.
Ecco perché predilige la carta, più sottile e più fragile della tela: “a volte” dice, “ coloro lo sfondo…altre volte coloro il corpo… ma è il corpo che voglio eliminare…perché è un impaccio…non serve…non conta...solo con l’arte può essere restituito a se stesso”.
Nel suo lavoro sembra compiersi un rito di transustanziazione, in quell’uscire e rientrare dal corpo e nel corpo, che rimanda, sul piano sociologico, ad un ben più esteso e tragico fenomeno che ha attraversato buona parte delle ultime generazioni: la ricerca dello “sballo”, dell’estasi che libera da ogni sorta di vincolo…di potere…d’impossibilità... che faccia volare.
L’artista, infatti, cerca nell’arte proprio il modo di rifuggire da ogni sistema normativo, da ogni limite che la costringa, come si intuisce guardando anche al suo lavoro più recente, quello fotografico.
Si ritrae davanti ad uno specchio, in condizioni di scarsa luminosità, piantandosi addosso un flash luminoso da inquisitore, che le squarcia l’immagine, le fa un buco nel corpo, forse assecondandola nell’intenzione beffarda di prendersene gioco, superarlo, trattarlo alla stregua di mero contenitore, zavorra del suo spirito ribelle e temerario, apparentemente immune da qualsiasi fragilità: “il mio corpo è il mio linguaggio…lui fa ciò che poi io capisco…riguardandolo mi accorgo di ciò che ho dentro…prima mi confondevo, ora provo a fondermi. La mia arte è il mio corpo…il mio corpo è la mia arte”.
Quando parla del suo corpo non sembra riferirsi concretamente soltanto al fascio di muscoli e tegumenti che costituiscono il contenitore animale del suo essere concettuale e l’uso che ne fa, anche sul piano formale, non sembra direttamente in relazione con la body art; per l’artista il corpo entra in scena in quanto simbolo del limite, dell’impossibilità, come àncora che impedisce alla nave di prendere il largo, come tenaglia che impone all’essere umano mortale quegli elementi di fisicità che ne fanno un sottoposto della legge gravitazionale.
Lo specchio le consente di realizzare gli autoritratti fotografici in completa autonomia, con se stessa, senza intrusi, in una condizione essenziale per crearsi e ricrearsi ogni volta, senza limiti, dea della propria deità.
Ne risultano sfondi dalle atmosfere fumose, impastate con le tonalità brune dei vapori di un pub a notte tarda e vi si avverte la necessità di una solitudine che sembra non avere mai avuto scelta, da sempre.
In questa dicotomia tra il suo essere concettuale e il suo essere corporeo si gioca l’eterno e sotterraneo conflitto dell’umanità contro la sua stessa natura, nel tendere illimitato ad una dimensione spirituale che non vorrebbe essere sottoposta ai vincoli ineluttabili del suo destino mortale.
Pur sottostando ai bisogni quotidiani della corporeità, combattendo ogni giorno col muro di gomma della realtà e dei suoi rimandi, l’artista non si scoraggia , lavora con la pazienza e la determinazione di un Icaro, a costruire il proprio paio d’ali, con una forza che solo l’arte può dare.


Margherita Levo Rosenberg

Genova, 21 settembre 2003