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TABLE
Table – Il confine dell’emancipazione

Angel Moya Garcia


In una realtà carica di impulsi visivi, all’interno della dimensione che Susan Sontag aveva definito “anestetizzata” dalle immagini, alcuni artisti scelgono di esprimersi con tonalità laconiche, altri invece optano per urlare intensamente per difendere la propria identità. È il caso di Chiara Scarfò (Genova, 1977), interessata prevalentemente al linguaggio della fotografia ed alla videoarte, che centra la sua ricerca sui luoghi della memoria e sul proprio corpo, inteso come limite immaginario o confine che deve valicare per essere, per potersi ricreare in ogni transito. Dopo diversi progetti sviluppati in completa solitudine negli spazi ex manicomiali di Cogoleto e Quarto, nella sua città natale, e dopo aver creato l’installazione ambientale “Nove Fratelli” nella Riserva naturale Foce dell’Isonzo a Gorizia, l’artista presenta “Table”, la materializzazione di una nuova soglia che deve essere superata attraverso l’emancipazione.
Il progetto “Table” parte dal ricordo del suono fastidioso delle molle sotto al tavolo allungabile anni ’70 che spezzava il silenzio grave nel suo ambiente quotidiano. Una nota dissonante che sottostava e irrompeva, durante l’infanzia dell’artista, nell’orizzonte conformato dagli incontri familiari intorno al tavolo e che generava una tensione crescente in maniera esponenziale, insostenibile ai sensi, irrispettosa del rito, liberatoria.
Così, il tavolo ma anche tutti gli eventi e le ritualità che si celano dietro e intorno all’atto di mangiare insieme, vengono interpretati dall’artista come una distopia, come tentativi radicalmente sperimentali e fortemente orientati in un senso liberatorio. In questo modo un luogo comune di convivenza, come la cucina, ed il suo centro nevralgico, il tavolo, vengono tratteggiati sommariamente, stilizzati, quasi azzerati, in forme sprovviste di ogni possibile uso. Sagome in cui si manifestano presenze vuote, profili filiformi che rievocano strutture sì conosciute ma difficili da identificare razionalmente e perimetri intesi come recinti invalicabili di filo spinato. Un mondo di simulacri del reale, visionario e inquietante, in cui l’esistenza viene inscenata o immaginata ma mai vissuta e dove tutto può cadere all’interno di se stesso o frantumarsi. Un ambiente, infine, nudo dove trascurare intenzionalmente la necessità innata di mangiare o dove potersi spogliare di tutto ciò che limita l’accettazione della propria natura dissonante.
Como sottolinea la stessa Chiara Scarfò “L’emancipazione è nell’accettare la verità. L’emancipazione avviene attraverso l’accesso a una dimensione di verità, la verità è qualcosa che scuote il corpo attonito, il corpo liberato innesca la propria ribellione, accetta di essere la nota dissonante e, nella più totale facilità e immediatezza, crea. Non c’è fuga, non c’è rifugio possibile, c’è l’accettazione di essere altro, della propria natura dissonante”.
Così, l’emancipazione viene concepita in una chiave ambivalente, come liberazione ma soprattutto come superamento. Un’emancipazione ambigua, sottile e complessa, come quella ottenuta da Guy Montag in “Fahrenheit 451” nello scoprire una nuova realtà attraverso la lettura dei libri che aveva sottratto oppure come quella rifiutata da Winston Smith in “1984” di George Orwell quando finisce per sottomettersi completamente al Grande Fratello convinto della propria colpevolezza. Un sistema, in definitiva, in grado da ridefinirsi continuamente, autoreferenziale e autopoietico, che innesca tutta una serie di possibilità scomparse, come l’accettazione della situazione attuale, l’imperturbabilità rispetto al futuro o la plausibilità di ritornare piccola per nascondersi sotto al tavolo e trovare quel “passaggio mancante”.
Un passaggio mancante, sviluppato inconsciamente dalla precaria e confusa definizione dei ruoli familiari, che suscita una profonda interferenza, sottovalutata frequentemente e confusa con un’ingenua incomunicabilità. Codici nascosti dietro ogni parola non pronunciata, dietro ogni gesto privo di senso ripetuto quotidianamente e dietro ogni sguardo perso nel nulla, portano a dialoghi segmentati e sovrapposti che s’intrecciano continuamente, come una radio che trasmette a frequenze diverse simultaneamente, provocando un rumore insostenibile, illusoriamente identificabile e riconoscibile, ma senza chiavi di interpretazione. Una dissonanza ed una disperata sensazione di vuoto che sempre più spesso si esprimono come disturbi del comportamento alimentare o come perturbazioni di una stabilità psicologica necessaria per la legittima formazione di un mondo privato dove i sogni, le fantasie e l’immaginazione non siano soltanto chimere irrealizzabili.
Questa sensazione di assenza, di smarrimento, e la corrispondente necessità istintiva e viscerale di scrutare la verità non si esauriscono, però, soltanto nell’immaginario dell’artista e nei suoi vissuti appartenenti a un caso specifico del passato. Se nel suo caso il tavolo diventava infine, nella sua parte più profonda, un luogo metaforico dove scoprire istintivamente il vero nutrimento dello spirito, nel caso delle famiglie degli ultimi anni rimane innanzitutto come luogo dell’assenza. Infatti, soprattutto nelle famiglie borghesi, i genitori continuano a commettere gli stessi errori che avevano subito in passato sulla propria pelle. La stessa assenza si intravede attraverso le conversazioni inconcluse o triviali, il tintinnare dei bicchieri, il contatto discontinuo dei piatti, il rumore monotono della masticazione o il suono metallico dei cucchiai, forchette e coltelli. Un silenzio assoggettato sotto molti altri rumori, sordi e assordanti, come quelli provocati dalla televisione che banalizza gli incontri e aliena qualsiasi intento di ascoltare ed essere ascoltati o dai cellulari che provocano irrimediabili fughe o interferenze negli eventuali dialoghi. Rumori costanti, intrusioni senza pausa, che non lasciano mai tempo né spazio a una comunicazione o a una sintonia continuamente cancellata o quanto meno scomposta e segmentata. Sottolineando la dissonanza dei rapporti che in questo modo diventano futili, stereotipati e avvolti in una sorta di fallace socialità.
Così, contrariamente alla razionalità comunicativa di Habermas, in cui l’agire sociale implica l'agire comunicativo, nella società contemporanea il tavolo diventa la metafora e l’oggetto di una vera interferenza. Un simbolo in cui predomina l’isolamento riservato, introverso e chiuso di ogni singola persona ma anche un rifugio. Uno spazio privato, identificato e scoperto attraverso le sensazioni e gli odori rievocati dai ricordi dell’infanzia, dove potersi nascondere e trovare l’equilibrio necessario per comprendere e percepire il vero aspetto del mondo esterno e per conoscere adeguatamente la propria intimità, sempre sfuggente, mai definitiva, che caratterizza, differenzia e personalizza ognuno di noi.